Compulsion

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The books chosen by Andrea Salonia

This review is available only in the original language

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Un giorno un amico matto come me di parole ed emozioni mi regala questo libro, giallo, un Adelphi elegante, con una fotografia in bianco e nero: due giovani uomini seduti che guardano qualcuno attraverso la copertina. E poi questa parola: Compulsion, in rosso amaranto, pure quello un poco antico, come i due, cravatta e farfallino. Boom, un colpo di fulmine, un’attrazione strana, una malia. Ecco, nonostante le sue cinquecentottanta pagine, Compulsion è diventato subito il mio libro della notte, dal quale non ci si poteva staccare se non perché stravolti dalla stanchezza e dalla necessità di levate mattutine che ancora c’erano tutte le stelle una per una, per tanto che era presto.

Il mio Compulsion è pubblicato nella collana Fabula di Adelphi, e già parte della sua eleganza si spiega. È stato scritto da Meyer Levine nell’ormai lontano 1956, ed è forse stato il primo romanzo-verità, come spesso si dice, una non fiction novel.

Una verità drammatica e quasi non credibile, ma vera, così tanto vera, e quindi ancor più capace di catturare l’interesse di chi legge e di chi si tuffa in un mare di lettere che si fan parole e frasi e paragrafi e infine pagine e capitoli, con l’anelito a comprendere, a immedesimarsi o, al contrario, a repellere fatti e personaggi, pur rimanendone coinvolto e incatenato.

Questo è ciò che mi è successo con Compulsion: brama di continuare e repulsione, al tempo stesso. Proprio ciò che compulsione significa: impulso irrefrenabile, ma anche costrizione, imposizione.

Ripugnanza, disgusto, ribrezzo, anzi: orrore. Tutte queste emozioni “negative” son chiare fin da quando si capisce di cosa il romanzo narri, per il fattaccio brutto alla base della vicenda: la storia vera di due giovanotti, Nathan Leopold e Richard Loeb, rampolli di famiglie straordinariamente ricche nell’America del 1924, al tempo poco più che maggiorenni (diciannove e diciotto anni, l’uno e l’altro) che programmano fin nel più minimo dettaglio di uccidere un ragazzo, tale Robert Franks, quattordicenne di una altrettanto ricchissima famiglia, che ben conoscevano, che apparteneva al medesimo ambiente sociale e culturale loro e delle loro famiglie. Anzi, i due avevano deliberatamente orchestrato un piano per rapire e assassinare il povero Robert, di ucciderlo con violenza, e solo per capire che effetto facesse, che sensazione si provasse nel togliere la vita a una persona. Ancora più orribile: per dimostrare a sé stessi e all’altro dei due di esserne capaci.

Ma a mio avviso perfino più disperante e fintamente incomprensibile: Nathan e Richard sembra facciano poi di tutto per essere scoperti, fermati, ingabbiati, perché il carico di pesantissime responsabilità gli venga riconosciuto (e a me sembrerebbe giusto dire, per dar tregua al torbido, all’orrido che sta in fondo all’animo, per arrivare davvero alla fine di quel famoso viaggio al termine della notte…).

Perché scriverne? Soprattutto, perché scrivere di un romanzo di quasi sessant’anni orsono, apparente amalgama di generi, dal giallo, al noir al thriller? In verità perché racconta dell’animo umano; di due giovani di straordinaria intelligenza, e disperante povertà affettiva; di un rapporto con la propria esistenza e col proprio io che – imbarazzante anche solo pensarlo, ma verissimo – ci riguarda un poco tutti, per la sua complessità e per le poliedriche molteplici infinite sfaccettature della personalità dell’io; di un rapporto con il proprio sesso e con l’altro sesso, che è frutto ed espressione di molte, moltissime componenti. E ancora, perché scrivere di Compulsion? Perché racconta dell’amicizia che sfocia in una relazione perversa e soffocante, e anche se racconta di un “amore” omosessuale, non se ne scrive per quello, e certo non per la “pruderie” che – spesso – questi argomenti portano seco, con il carico di perbenismo, moralismo, bacchettoneria, repulsione, ostracismo, affettazione, ma anche completa accettazione, omologazione, correttezza politica, timore di dir cose che non piacciano e non si omologhino ai più, intellettualismo. E mancherebbero solo ambientalismo e politica per aver pensato quali pensieri e sentimenti un tema di questo genere potrebbe suscitare: due omosessuali ricchi e intelligenti che pianificano un rapimento e l’assassino brutale di un ragazzo nell’America bianca plurimilionaria e bacchettona della prima metà del secolo scorso.

No, di questo libro ho amato: la scrittura, coinvolgente e meravigliosa, pur se tradotta (e questo a mio parere è un merito grande dello scrittore – eccelso – e del traduttore – pure lui o lei, eccelsi); la capacità vivida di rendere ambientazioni e situazioni reali, il realismo, appunto; l’introspezione nella personalità dei soggetti, che sono personaggi e che sono persone pur continuando a essere personaggi (quindi, ancora una volta: noi tutti); la capacità di rendere comunque lieve l’analisi psicologica di uomini, donne, fatti e avvenimenti, che al contrario sarebbe potuta diventare di pesantezza soffocante (e forse, unico neo che mi permetto di rilevare, ma pur sempre rimanendo in giudiziosa punta di piedi, è la lunghezza di alcune pagine della seconda parte del romanzo, dedicata alla narrazione dei fatti processuali che infine porta, perché questo succede, i due protagonisti “cattivi” della storia a essere catturati, incarcerati, processati e condannati).

Si potrebbero scrivere ancora mille e mille cose di Compulsion, che uno di quei libri che davvero o si amano con disperata follia, o si odiano con totalizzante corporeità.

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Meyer Levin, Compulsion, Adelphi, Milano, 2017

Original edition: Compulsion, Hodder & Stoughton, London, 1956

 

 

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