Fear

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The books chosen by Andrea Salonia

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Ha quasi centodue anni, più di un secolo. Così recita l’ultima riga, in calce: 15 agosto 1921. Ieri, praticamente.

È piccolo di formato, e breve per numero di pagine.

È denso, compatto, è serrato come solo l’espressione del disagio e della paura possono essere.

E proprio così si intitola: La paura.

È un romanzo scritto da Federico De Roberto, pubblicato da Garzanti nella collana “i piccoli grandi libri”. Era lì, su uno scaffale stondato nella libreria dell’aeroporto, praticamente mi ha chiamato, quando gli occhi ci son cascati sopra. Un soldato con fucile e baionetta in asta, teso in alto, verso il cielo (forse), che è giallo e beige sulla copertina de La paura. O (forse) verso un nemico. Un nemico, due nemici, tre nemici, mille nemici, milioni di nemici. Quanti ne sono morti di nemici nei millenni che ci hanno preceduti? E quanti ne continuano a morire? E quanti noi sono il nemico? Più di un anno orsono, la mia Pillola del Doc per BooktoMi raccontava dell’orrore di quel giorno nefasto, il 24 febbraio 2022, in cui uno scellerato mal pensava di cominciare l’ennesima guerra, fottendosene letteralmente del vivere civile, delle regole, del rispetto per l’altrui vita, della vita stessa, di tutto, destando sgomento, angoscia, sbigottimento, orrore. “Creando” paura.

Da uomo, purtroppo mai ho “sognato” che ciò non sarebbe più avvenuto. Siam troppo idioti perché di guerre non ce ne fossero più. Ma cosa dire da medico? Da ricercatore che ricerca come meglio promuovere la salute, e di dar luce a nuove vite? Da educatore di nuove generazioni di medici, che a loro volta cercheranno di guarire, di salvare la gente e di formare altri medici, e poi altri ancora, che con strategie altre, con armi altre, tanto diverse, proveranno a dare il meglio di sé per far sì che “la malattia” – questa luciferina entità pensata nel suo complesso – finalmente ceda il passo, scompaia, e la caducità del corpo possa essere meno drammatica. Ecco, cosa può pensare un medico, se non provare la paura, una estrema densissima schiacciante paura?

Non conoscevo il romanzo, come non ne conoscevo l’autore. Entrambi son passati da tanto, ma le parole rimangono, questo è il meraviglioso dei libri: che restano nel tempo; resistono al sole accecante, alla pioggia battente e al vento che squassa; le parole scritte sopravvivono, e noi – almeno molti noi – per grazia loro. E queste poche parole di De Roberto lo san fare bene, restano in vita, sfuggono all’oblio della dimenticanza perché sono di una attualità estrema e pervicace. Ciò non tanto perché raccontano della guerra, delle ammazzatine che alcuni sconsiderati contemporanei potrebbero perfino esaltare, celebrando il mito la forza la virilità la vis, ma perché raccontano del sentimento più buio che sta laggiù nel profondo di ciascuno, pronto a riemergere dall’abisso, quando meno ce lo si aspetterebbe o anche quando più sappiamo che tornerà a farci visita: la paura.

È un romanzo che ha il sapore di un’epoca, quella dei primi vent’anni del secolo scorso, con quell’allure bella di una Italia fatta di tanti popoli differenti, ciascuno con la propria lingua, il proprio dialetto, il siciliano, il lombardo, il veneto, l’umbro e l’abruzzese: meraviglia! Il De Roberto qui li unisce con una naturalezza tanto piacevole che le parole scorrono e tu termini il volo fin giù alla Puglia senza che neppure ti sia effettivamente accorto dei minuti che son trascorsi, avvinto dalla attesa, dai giorni che succedono alle notti senza che nulla accada realmente nelle trincee di montagna. Stai lì che aspetti e guardi il nemico, il tu dall’altra parte della barricata, che a sua volta pazienta finché l’alba succeda al freddo delle notti più rigide, e all’alba le ore diurne e poi il tramonto, fino alle nuove stelle. E via così per settimane e mesi. Questa è la narrazione cui ci ha “abituato” molta letteratura che ha raccontato della Prima Grande Guerra. Poi ecco che d’improvviso qualcosa cambia, e i corpi cominciano a cadere, uno, due, tre e quattro in fila come formiche, e tutti per mano di un nemico che non si vede. E allora arriva la paura. Del corpo, che trema. Della mente, che si rabbuia.

Il dizionario scrive, alla voce “paura”: “stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario o dinanzi a cosa o a fatto che sia o si creda dannoso; più o meno intenso”. Da dove arriva? La scienza si è molto spesa per trovarne un’origine plausibile. Sembrerebbe che quantomeno la risposta alla paura parta dalla amigdala, proprio in quella porzione del nostro cervello che più ci lega filogeneticamente a quello che siamo: animali. Vorrei non dire bestie, per quella accezione negativa che, spesse volte, si associa a questo termine; ma in verità lo si può proprio affermare con forza: la paura è stato d’animo che molto, moltissimo, ci lega al nostro essere bestie. La paura di Federico De Roberto investe la paura stessa di un compito importante, tanto impegnativo, forse addirittura eccessivo: restituirci la dignità del cogitare, a noi esseri uomani, e dello scegliere, perfino della scelta di decidere per l’estremo dei gesti, quello che unisce visceralmente il massimo del coraggio con la follia più cieca.

È un romanzo antico, è uno scritto di attualità assoluta.

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Federico De Roberto, La paura, Garzanti, Milano, 2022 (Prima edizione 1921)

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