La città dei ladri

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“VENERDÌ RE-VERSO

“In mezzo a tutto quel terrore, alle grida, ai passi pesanti c’era qualcos’altro, qualcosa di strano. Kolja stava ridendo.”

 

Ogni tanto succede che si nomini un libro e gli occhi di tutti quelli che l’hanno letto si accendano. Non è l’effetto del “classico imprescindibile” (da leggersi con la sicumera che le virgolette suggeriscono), né dell’ultimo caso editoriale (“Il libro dell’anno” e siamo a gennaio); è come se si attivasse una memoria intima, un evento privato di inestimabile valore e tenerezza, e si creasse una complicità simile a quella di due amanti che ricordano il loro primo sguardo d’intesa, quell’epifania a due da cui il resto del mondo è stato escluso.

Questo è ciò che ci è sembrato di intravedere negli occhi di quelli cui abbiamo detto di aver appena finito “La città dei ladri” di David Benioff (o Beniov). Uno di quei libri in cui si ride e si piange, talvolta insieme, si ha voglia di rileggere quel dettaglio struggente o quella descrizione burrascosa, in cui ci si ferma instupiditi per l’innocenza dei sentimenti e per l’atrocità della loro assenza, bambini in guerra, ossimoro devastante.

Leningrado, 1941. Assedio tedesco. Due ragazzini imberbi, accusati di diserzione uno e sciacallaggio l’altro, vengono risparmiati da un imperscrutabile colonnello dell’NKDV in cambio di una missione fuori luogo, fuori senno, fuori tempo: recuperare 12 uova per la torta nuziale della figlia. (“Aveva semplicemente disegnato tante “x” fino a tappezzare tutto il foglio.

Chissà perché, questo mi spaventò più dell’uniforme o della faccia da picchiatore. Avrei potuto capire un uomo che disegna tette o cani, ma uno che disegna solo e soltanto delle x?”). Inizia così un assurdo pellegrinaggio, scandito da incontri surreali, notti gelide e boutades letterarie, le tappe di un’amicizia tanto inaspettata quanto profonda. Kolja e Lev, due puntini nella neve: uno smaliziato, brillante e generoso, l’altro insicuro, impacciato, riflessivo. Costretti a stare insieme, destinati a volersi bene. “I giorni sono diventati un disastro via l’altro” – e, davvero, non è facile spiegare la stregoneria che ci avvince a questi disastri, il modo leggero che ha Benioff di raccontarci com’è capire chi si è o chi si sta diventando in mezzo alla fame, al freddo, alle macerie, alle persone che scompaiono. È difficile immaginare di sorridere e spaventarsi e affezionarsi così in meno di 300 pagine. Arrivare al finale e riaprire il libro da capo, rischiare di rileggerlo tutto. Qualcuno la chiama Letteratura: potrebbe essere la distrazione di un attimo, provare ad aggiungere qualcosa, e immediatamente tradiremmo la delicata maestria con cui queste strambe avventure ci sono state riportate.

“Vogliono radere al suolo la nostra città, vogliono affamarci. Ma noi siamo come due mattoni di Piter. Non puoi bruciare un mattone. Non puoi affamare un mattone.”

“E questa dove l’hai sentita?”

“Il mio luogotenente. Perché?”

“È lo stesso luogotenente che poi ha messo il piede su una mina?”

“Già, poveraccio. Scordati dei mattoni.”

È tutto così, un costruirsi a vicenda, un mettersi alla prova nel confronto con l’altro, un vagabondare con uno scopo preciso (trovare le uova) ma totalmente senza senso (trovare le uova) che rende precisamente senza senso quasi ogni avvenimento della storia. Eppure ogni insensatezza capitola di fronte alla luminosità di un personaggio come Kolja, di fronte al suo folle sprezzo per la paura, ai suoi commenti inopportuni, alla sua passione per la creazione letteraria, alla sua inscalfibile, genuina vitalità. È come se ci sentissimo fortunati ad averlo incontrato, se gli anni tendono ad appannare un po’ le emozioni lo spettacolo di questo piccolo uomo e il suo brillare nel mondo di Lev, così timoroso, così sopraffatto dai pensieri, rivitalizzano anche il nostro sguardo, ci fanno venir voglia di dire: “Ho appena letto un libro bellissimo”.

 

Recensione di Delis 

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David Benioff, La città dei ladri, Neri Pozza, Vicenza, 2011

Edizione originale: City of Thieves, Viking Books, New York, 2008

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