Rocco e i suoi fratelli

Scritto da Francesca Sivori

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Non l’avevo chiesto, eppure qualcuno si ‘premurò’ subito di informarmi: il fegato che mi avevano trapiantato era di un ragazzo morto a seguito di problemi di tipo polmonare. 

Chissà perché la gente non si fa gli affari propri: era così importante farmelo sapere?

Mi avevano messo in coma farmacologico e quindi io non avevo ‘saputo’ né ‘visto’ nulla: al mio risveglio e, per riguardo nei miei confronti, solo dopo alcuni giorni il Professor U. V., insieme a tutto lo staff del Centro Trapianti di Genova, che attorniava il mio letto, si decise a informarmi: “Signora”, cominciò il chirurgo con fare incerto e timido, “la sua situazione, quando è arrivata qui da noi, era molto critica. Il suo fegato, ad addome aperto, si è sfaldato nelle nostre mani e altro non abbiamo potuto fare se non espiantarlo e attendere un fegato compatibile”. Indugiò qualche secondo per vedere la mia reazione. Io, impassibile, forse perché ancora debole, rimasi in attesa della fine del suo discorso. “Abbiamo quindi dovuto fare un trapianto: sostituire il suo fegato con quello di un’altra persona”. 

Non lo domandai allora di chi fosse stato ma neanche nelle settimane successive trascorse in ospedale.

Solo dopo alcuni mesi, quando ero entrata nella forma mentis della mia ‘nuova condizione’ e avevo acquisito i ‘termini’ del linguaggio dei trapiantati, sollecitata dal ‘solito’ personaggio in cerca di ‘emotività’ mi si è affacciata nel cervello la certezza: un ragazzo era morto e, per aver lasciato questa terra, io avevo avuto la possibilità di tornare in vita. O meglio, lui mi aveva dato la possibilità di continuare a vivere: io ero un ricevente e il giovane era un donatore.

Cosa avrei dovuto fare? Secondo i ‘canoni’, dire grazie.  A chi? A lui che era morto? 

Ai genitori che avevano firmato e permesso ai medici di espiantare gli organi del figlio? Come si fa a dire queste cose di fronte al dramma che stanno vivendo due genitori il cui figlio, magari l’unico, è morto tra le loro braccia a soli 20 anni?

Esclusi i ‘ringraziamenti’, tentai un altro approccio stile ‘trapiantato’: provai a ‘sentire’ il desiderio di ‘vivere’ anche per l’altro’. Fallimento completo: le mie depressioni o le mie gioie rimasero sempre e solo le mie, non condivisibili con nessun altro, tanto più con uno ‘sconosciuto’.

Queste forzature, ‘sdolcinature’, enfatizzazioni dietro ad atteggiamenti stereotipati, purtroppo tanto frequenti, reputavo fossero senza senso. ‘Ma forse potrebbero essermi utili, a me trapiantata che devo ‘per forza’ sdemonizzare ciò che mi è successo…’, pensavo.

Per molti anni ho cercato di ‘calarmi’ nei più disparati sentimenti, ho cercato di condividere quegli stessi che animano gli altri trapiantati: li ho passati al vaglio uno ad uno, per trovare quello che più mi si confaceva.

Mi stavano tutti troppo stretti. Nessuno corrispondeva a ciò che sentivo dentro di me; nessuno mi era d’aiuto per dare un senso preciso a questo ‘casus belli’ in cui mi ero ritrovata.

Il trapianto oggi è considerata un’operazione di routine, ormai non è altro che un semplice intervento chirurgico. Eppure, sembra che ogni volta sia avvenuto un ‘miracolo’. In Italia, il trapianto è un qualcosa di particolare, di straordinario. Un evento che spesso va sui giornali.

Vi ricordate di Nicholas? I genitori, intervistati più volte non si capacitavano del perché tanto clamore per un fatto – non uso il termine gesto apposta –che a loro appariva del tutto naturale.

Da quando Barnard fece il primo trapianto ‘mediatico’ e, attraverso Denver e Pittsburgh fino al Centro Trapianti di Genova, dove avvenne uno dei primi trapianti di fegato in Italia, si è scatenata una ‘caccia’ alle emotività che ha infarcito il tutto di espressioni del tipo: “un atto eroico”; oppure: ‘un gesto di generosità estrema’; se non: ‘un’azione di completo altruismo’.

Il ‘donare’ un organo è assurto a un qualcosa di eccezionale, di unico che solo in pochi riescono a compiere…

Eppure, io stessa, nel 1980, a un tavolino dell’AIDO, feci la mia tessera, la 92 e lo vissi come un ‘gesto’ del tutto spontaneo e naturale. 

Durante questi anni ho partecipato alle gare di nuoto insieme ai trapiantati e ho scoperto che siamo una categoria ‘a parte’: non siamo classificati né normodotati, né disabili. Non possiamo partecipare alle Olimpiadi, ma neanche alle Paralimpiadi. Siamo solo e unicamente ‘trapiantati’. Per noi, sono nati i World Transplant Games ai quali possono partecipare tutti: non esistono selezioni e/o tempi di gara da rispettare.

I nostri giochi non hanno come motore portante la competitività: sono solo e semplicemente un inno alla vita. 

Alla cerimonia di apertura, con tanto di torcia e braciere, sfilano tutte le squadre del mondo affiancate da un nutrito corteo di parenti dei donatori.  La nostra fiaccola ha un doppio significato: non ricorda solo quella dell’antica Atene ma assurge a simbolo quale passaggio della vita da un uomo a un altro uomo.

Parte da qui, a mio avviso, l’autentico e, forse più reale, significato di ciò che sta dietro ad un trapianto. 

Rifletto sulla torcia accesa nel braciere dei WTG intesa come il ‘testimone’ che passa da una persona all’altra, da un essere umano a un altro essere umano. La fiaccola della vita: il lume grazie al quale siamo tutti ‘accesi’, siamo vivi.

Penso all’energia che unisce tutti noi: la materia vitale che rende ciascuno di noi simile ai nostri simili. Colore, razza, religione, classe: nessuna distinzione. Siamo tutti uomini (le nostre viscere ce lo ricordano costantemente), siamo tutti un’enorme famiglia che altro non è che l’umanità intera.

Gesù Cristo in fondo lo disse nella maniera più semplice e naturale: siamo tutti fratelli. 

E, in quanto tali, ci aiutiamo l’uno con l’altro. Sempre. Senza chiederci il perché.

 

Proprietà intellettuale di Francesca Sivori

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