Nannina

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I libri scelti da Andrea Salonia

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Stefania Spanò: ma dove sei stata fino a oggi?

Ricordo sempre con affetto commosso l’amico Alberto Garutti, artista e persona di raffinato intelletto, un cuore che lo occupava tutto; il Garutti e una delle sue opere pubbliche che più amo; queste le sue esatte parole: “tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora”. Ecco, con Nannina di Stefania Spanò, edito da Garzanti, è stato proprio così: sono arrivato alla stazione di Napoli Centrale, con il mio solito carico di cose, affanni e libri, e c’era lei, verde acqua spento, Pantone 572 C, una ragazza in bianco e nero, capelli neri, occhi infiniti, labbra pure loro nere, lo sguardo un poco torvo, una perfetta scriminatura dei capelli, nel centro, bianca, colletto alla francese. Dietro: Napoli. Per fortuna i miei passi quel giorno mi condussero lì, e proprio lì.

Questo suo primo romanzo, Nannina, è davvero bello.

In genere, non amo lo scritto dialettale nelle lettere – non me ne vogliano i tanti scrittori, tantissimi, sempre più, che ne fanno largo o fin larghissimo uso, ma trovo ostico il leggere le forme dialettali, pur condividendone appieno importanza e profondità, testimonianza vivissima della nostra storia e di chi siamo, cultura fondamentale e tradizione, pur provando gioia pura nel sentire dialetti qui e là, pur divertendomi assai nel cercare di riconoscerne la provenienza e di interpretarne il senso, ma l’amore è per la lingua del sì. In genere, quindi, non amo lo scritto dialettale nelle lettere, ma in Nannina, cara Stefania Spanò, la tua lingua è un insieme di sensi e di colori e di suoni, e tutte cose a cielo aperto. Con la vita che pare scorrere in piena strada, pare venirti addosso, cercandoti. Con Stephanie, Adelina la mamma, zia Antonietta e nonna Nannina, e tutte le donne e gli uomini che ruotano loro attorno, persone e personaggi di una Secondigliano che il lettore vive a sua volta.

Delicate e delicati, come funamboli in alto, quasi a toccare il cielo. Oppure grevi, appiccicati a terra, schiacciati al suolo, per il carico dell’esistenza impossibile e tanto difficile da vivere. O anche più sotto, sotto la terra, nelle voragini scavate d’improvviso dal terremoto che squassa tutto, lacera, e lascia attoniti, lascia partenopei, mi piace pensare. Perché esserlo, essere partenopei intendo, mi suona come una meravigliosa condizione dell’essere umano. È per questo che Nannina è un romanzo con una straordinarietà sua propria, perché sa raccontare di Napoli, di Secondigliano meglio ancora, con struggente vivacità. Impietoso e candido al tempo stesso. Di Nannina che inventa i cunti, fa la cantastorie, anzi era la più famosa delle donne che raccontavano delle vite e delle genti con le sole parole, senza mai scrivere nulla, portando in scena quei racconti, nei cortili, come fossero spettacoli per il popolo (alias, le genti tutte), con tanto di comparse, attori e partecipanti, onomatopee, suoni e grida e urla e pianti e risa. Di Nannina che è stata rinchiusa coi matti, e rischia di perdersi. Di Stephanie – perché un nome così parigino a Secondigliano, poi? – che impara la vita proprio conoscendo i cunti, impratichendosi nell’arte della nonna (Nannina), e facendosene magare.

Nannina è un romanzo di formazione. È pregno di originalità e passione. È crudo e dolcissimo.

È poi incredibilmente divertente, perché vi sfido a non crepare di risa nel leggere la nascita del triangolo femminile. Sì, proprio quello, avete ben capito, le mani a raccontare ciò che sta in mezzo alle gambe delle donne, quello di Giovanna Pala, per prima, Parigi 1971, una manifestazione contro la violenza sulle donne, lei che si alza, unisce le mani, e fu allora che in segno di protesta inventò quel simbolo così emblematico. Non ne scrivo nulla, se non “miscia miscioccola”, ma andate attorno alle pagini 142-144 e capirete perché Nannina è così speciale.

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Stefania Spanò, Nannina, Garzanti, Milano, 2023

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