“VENERDÌ RE-VERSO”
“C’è in questo albergo qualcosa che mi turba e mi trattiene. Non capisco bene. Non cerco di capire meglio.”
Non capiamo bene. Non cerchiamo di capire meglio – quello che ci tiene in questo libro. Eppure: ci stiamo, anche se turbati. Come in un sogno, non sappiamo come siamo arrivati qui, forse una citazione, un’epifania, un moto involontario dell’animo ed eccoci davanti a un titolo che ok potete chiudere tutto.
Duras possiede uno sguardo fondamentalmente teatrale, due parole ed ecco la scena aprirsi davanti a noi, luci, atmosfera, stati d’animo e posizioni, sguardi. Siamo fantasmi sul palcoscenico della storia, così vicini da sentire gli odori, e i pensieri: siamo in questo strano “albergo”, che assomiglia tanto ma proprio tanto a una clinica, siamo seduti sulla sedia dietro al protagonista, lo guardiamo guardare una donna – che guarda i campi da tennis. Assente. Qualsiasi cosa accada in questo albergo pare fuori dal tempo, una nebbia farmacologica ovatta le azioni, il nostro uomo è lì per sbaglio ma in questo sbaglio sembra aver trovato una ragion d’essere, quella donna, non bella, che finge di leggere un libro e non sa di essere osservata.
Stringere l’orizzonte del mondo, fare di una foresta un confine (invalicabile?), spendere le ore con poche persone galleggianti nella stessa immobile quiete rende surreale tutto quanto stia prima, o dopo o fuori. La prevedibilità della routine cristallizza l’attimo presente, le domande si fanno rarefatte, fumose, non richiedono più vere risposte. Per buona parte del libro abbiamo creduto che l’ebreo Stein, inquietante apparizione serale, fosse una proiezione dello stesso protagonista, “vede, io posso permettermi di fare cose che lei non farebbe”. Max Thor del resto sta per diventare uno scrittore (da sempre), una certa attitudine manipolatoria nei confronti della realtà ce l’aspetteremmo. Così, mentre il quartetto di individui che va componendosi sulla scena diventa sempre più follemente drammatico, noi scivoliamo languidi nell’insensatezza di ogni dialogo, scorgendone una più profonda quanto ineffabile verità. Ed è una tentazione dolce, poggiarsi sul cuscino della pazzia, nella lucidità incontestabile della pazzia, nel suo arbitrio potente. Anche la povera Elisabeth (la donna dallo sguardo perso), che non è pazza, è solo terrorizzata dalla vita, si lascia lambire dallo scrittore, dal suo incongruente alter-ego, dalla di loro amante Alissa, in una spirale di frasi letali, fino all’occhio del ciclone dove tutto, come d’incanto, smette di girare: “Che ne sarà di noi?”.
116 pagine. Poco più di un’ora. Nella nostra testa, i colpi delle palle da tennis che rimbalzano, con quello schiocco peculiare, un ritmo che assurge a metronomo della storia, ogni singola parola un colpo che risospinge la sfera nell’altro campo, ribaltando le prospettive, confondendo le certezze e gli esiti possibili. Nella sua Nota per la rappresentazione, Duras scrive: “Nessuno grida. L’indicazione è di ordine interiore.” Nessuno grida. Eppure… “Chi crederebbe che le nostre notti siano così dure?”. 116 pagine. Poco più di un’ora. Se anche avessimo letto solo quest’opera dell’autrice, sarebbe stata sufficiente a decretarne la severa, ineludibile maestosità.
Recensione di Delis
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Marguerite Duras,
, Marcos y Marcos, Milano, 1991Edizione originale: Détruire, dit-elle, Minuit, Paris, 1969