I gatti non hanno nome

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Una zia gli aveva detto che la sua mamma era malata e quando aveva domandato di che cosa, la zia gli aveva detto: di mente”.

Ogni tanto, capita a tutti, ci si trova in mano un libro per caso e qualcosa ci suggerisce di spostarlo in cima alla pila dei famigerati “To Be Read”. Così è stato per questo NN, aperto tra lo scettico e il pigro su questa frase: “Nei quattro secondi che seguirono mi concentrai per rendere invisibile ogni cellula del mio corpo, fenomeno che si ottiene stringendo il culo finché non ci passa nemmeno uno spillo”. Praticamente irresistibile.

“I gatti non hanno nome” è la storia di un’estate, una di quelle che per strane alchimie adolescenziali ci rimangono appiccicate addosso per tutta la vita; una di quelle in cui ci sembra di poter toccare con mano (sudata, per il caldo e gli ormoni) il cambiamento, di intravedere una direzione (tranquilli, quella sbagliata). Quelle estati alla “Stand by me”. Della protagonista – 14 anni, sessualità in divenire, sguardo attento – non conosciamo il nome. Anche del suo felino, noi e lei, non conosciamo il nome. Parcheggiata nella clinica veterinaria dello zio Fin dai genitori in seconda luna di miele, con il buffo appellativo di segretaria, la piccola domenicana cerca di capire se stessa, il mondo e i personaggi che lo abitano.

Dare un nome: al gatto, alle facce di zia Celia, ai sentimenti, alle cose che capitano. Dare un nome – o non riuscire a darlo – ha tutto a che fare con l’identità. Quando una cosa non ha nome rimane inafferrabile, ci mettiamo una vita per dare una forma a noi stessi, alle nostre paure, alle nostre speranze, per fermarle e metterle a fuoco, ben prima di capirle. Per spiegare tutto questo, Rita Indiana sceglie le perifrasi più ironiche, inaspettate, profumate, così che da quel magma ribollente che è la pre-adolescenza possano emergere le emozioni, quando ancora sono inspiegate e inspiegabili; i rapporti tra le persone, che da fuori sembrano un disegno perfetto – compiuto – e invece sono milioni di fili che hanno imparato a rimanere intrecciati; le storie, il gesto del narrare che svela e allo stesso tempo nasconde, significando e informando la vita (come i racconti della nonna che ad ogni versione regalano una verità diversa).

Il modo che ha l’autrice di raccontarci questa estate è tutt’uno con un certo modo di scoprire la vita a quattordici anni. Ogni similitudine è così poetica, accurata, così densa che possiamo quasi sentirla sulla lingua (anche grazie all’abilità di Vittoria Martinetto, la traduttrice): ci spinge, mentre l’assaporiamo, a dimenticarci il mondo così come ci siamo abituati o costretti a leggerlo; ci fa dono dello spirito giusto per re-inventarlo, per dargli un nuovo nome. Un nome che sia nostro, e che ci faccia un po’ meno paura.

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Rita Indiana, I gatti non hanno nome, NN, Milano, 2016

Edizione Originale: Nombres y animales, Editorial Periférica, Cáceres, 2013

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