Sabbia

Scritto da Sara Patané

 


 

Stavo sdraiato su una panchina, a osservare il sole che perforava le nuvole sopra di me. Faceva caldo, come al solito, e la maglietta leggera mi aderiva completamente al corpo, umida di sudore.

Nel parco i bambini stavano ridendo e giocando tra di loro, nella sabbia e sulle altalene; bambini anche abbastanza grandi, che presto avrebbero raggiunto un’età per cui fare i castelli di sabbia era considerata una cosa infantile. Io non la pensavo così.

Per me la sabbia aveva un significato leggermente diverso da quello che per la maggior parte delle persone poteva essere una giornata in famiglia. Per me la sabbia significava un addio e un benvenuto. Significava la promessa di una vita migliore e il raggiungimento di un mondo ostile. Significava paura e speranza.

Significava l’abbraccio di una madre e una mano che ti stringeva forte per impedirti di annegare, esattamente l’attimo prima che l’acqua salata di entri in gola e impedisca ai tuoi polmoni di prendere ossigeno. Ricordavo a stento la mia vita precedente, ma quello che la mia mente riusciva a raggiungere non sembrava l’inferno che si ricongiungeva a quello della notte fatidica.

Rammaricavo una casa accogliente e vestiti modesti. Una grande famiglia e una madre affettuosa. Probabilmente prima che scoppiasse la guerra la mia era stata una famiglia rispettata; eppure mi risultava molto difficile pensare di appartenervi, perché la mia ipotesi immediatamente veniva smentita ogni volta che un italiano mi passava vicino e mi guardava negli occhi. Questo accadeva raramente, perché la maggior parte di loro non voleva nemmeno rivolgermi un’occhiata, ma quando succedeva le emozioni che vi trapelavano potevano essere solo due: pena o disprezzo.

Qualcosa che ricordavo più lucidamente di quanto desiderassi era quella sera di dieci anni prima, in cui mia madre, io e il mio fratello più piccolo ci eravamo ritrovati su una spiaggia dove centinaia di persone di tutte le età si stavano ammassando su un gommone a mio parere troppo ristretto per quel numero. Mia madre mi aveva preso da parte e mi aveva stretto tra le braccia, mentre le sue lacrime mi inumidivano una spalla. Aveva singhiozzato un addio e si era assicurata che mi sarei preso cura del mio fratellino di appena sei anni, quattro anni meno di me.

Ci aveva preso le mani e le aveva fatte stringere forte. “Questa è una corda indistruttibile”; aveva detto con fermezza indicando le nostre dita intrecciate “finché terrete i due estremi stretti, niente potrà farvi del male”. E poi era corsa via e noi ci eravamo imbarcati insieme agli altri.

Il viaggio non lo avrei mai scordato: c’era puzza di sangue e sudore, non ci si poteva muovere e il vento ululava contro il gommone, mentre le onde ci facevano sbandare e venire la nausea. La mia attenzione era incentrata sul mio fratellino, che si reggeva a me tremando. Io dovevo essere forte per entrambi, una guida, una montagna che avrebbe retto alla furia della tempesta.

Eravamo sul bordo del gommone, il che ci impedì di soffocare in mezzo a tutte quelle persone, ma non di essere le prime vittime della furia del mare. Quella notte vidi decine di persone venire sbalzate fuori dal gommone e venire inghiottite dall’acqua color inchiostro sotto lo sguardo crudele della luna piena.

Successe quando avevamo appena visto terra, e le persone avevano cominciato a gridare di speranza, perché noi eravamo i sopravvissuti. E allora arrivò un’onda più alta delle altre, che fece ribaltare il gommone e tutte le persone vive e morte che vi si trovavano sopra. Io strinsi la mano del mio fratellino come fosse la mia ancora di salvezza mentre cadevamo nel mare gelido. Non sapevamo nuotare. L’acqua ci entrò nelle orecchie e noi due venimmo calati in un silenzio e una calma mortale. A volte si sentivano i tonfi di corpi che cadevano vicino a noi, ma e grida si sentivano solo ovattate nella confusione.

Aprii gli occhi e vidi il mio fratellino sotto di me che annaspava in cerca di aria. Lo fissai negli occhi, mentre nei suoi vedevo una paura cieca mista alla fiducia che io lo portassi in salvo. Le mie lacrime si mescolarono al sale e io gli sorrisi. Non ti lascerò, mimai con le labbra mentre una bolla si formava intorno al mio viso.

E allora sentii una presa ferrea che mi stringeva la spalla. Venni strattonato verso la superficie all’improvviso e le mie dita vennero strappate a quelle del mio fratellino, che scivolò nell’oscurità. Gridai e gridai, incurante del fatto che l’acqua mi stesse entrando in gola.

Venni bruscamente risvegliato e vomitai acqua, mentre un uomo vestito di colori fosforescenti mi stringeva con sicurezza. Probabilmente svenni per un po’, perché quando aprii di nuovo gli occhi mi ritrovai sdraiato sulla spiaggia, la sabbia attaccata ai miei vestiti e il caos intorno a me. Bambini che piangevano, adulti che gridavano e persone svenute affiancate dai soccorritori vestiti come lucciole. Mi sedetti e gridai il nome del mio fratellino, mentre la verità prendeva il sopravvento e un senso di disperazione e impotenza si faceva largo dentro di me. Il mio fratellino non c’era più. Carponi, avevo raccolto un rametto e, le dita tremanti, avevo tracciato una frase: “scusa mamma”.

La corda indistruttibile si era spezzata.

 

Proprietà intellettuale di Sara Patané

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