Parlano di Lei

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I libri scelti da Andrea Salonia

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Mi prendo una libertà e faccio un azzardo: racconto del sentire nato da tre romanzi letti uno in fila all’altro, per fato, ma forse non per caso. Tre romanzi di autori che, non me ne abbiano, non conoscevo e che hanno narrato dello stesso tema: la Lei per antonomasia, la mamma, e con lei dell’infanzia e del crescere e diventare grandi e dell’affacciarsi alla vita che, spesso, arriva a prenderti a schiaffi. Forti, dolorosi persino. Ecco perché questa volta mi piace accogliere l’idea di un eccesso, scrivendo poche parole di Infanzia, La buona educazione e infine Tuamore.

Tove Ditlevsen era una scrittrice danese la cui trilogia di libri autobiografici – trilogia di Copenaghen, ndr – fu accolta con grande favore ed eccellenti recensioni. Oggi viene pubblicata in Italia da Fazi Editore. Tove non è più da tanti anni. Io l’ho incontrata per la copertina turchese ottanio e una figura di donna con lo sguardo rivolto in alto, chiusa in un cappotto stretto in vita, le mani in tasca e un copricapo appoggiato. Era lì, su un banco di una libreria che molto amo in stazione Termini a Roma, e così ci siamo incontrati. Infanzia è un breve romanzo che descrive proprio l’infanzia della Ditlevsen, lontana laggiù negli anni tra le due grandi guerre del secolo scorso, in una Copenaghen un poco cupa, per come ne ha raccontato, o almeno così a me è parso, perché già sappiamo che fredda lo era di sicuro. Della madre scrive che forse le vuole bene, nonostante tutto (c’è un punto di domanda qui nel testo, per tanto la relazione tra le due era stata complessa), e soprattutto nonostante il rapporto della piccola Tove con la mamma fosse stretto ma doloroso e traballante, e i segni d’affetto dovesse andarseli a cercare, perché da sé quelli di certo non sarebbero arrivati, con quel suo cuore di bambina pregno di un caos di rabbia, dolore e compassione che per tutta la vita la madre avrebbe destato in lei. È un libro di grande durezza, di straordinaria capacità poetica e insieme fatto di spigoli e di aculei ficcanti; capace che pure altri, come me, non se ne riusciranno a liberare fino a che si sia arrivati all’ultima lettera, e al punto immediatamente successivo. Trovo straordinario questo suo incipit di un capitolo: “…L’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne da soli…”. Tremo di paura, attualizzando il significato ai giorni che viviamo oggi.

Alice Bignardi ha pubblicato quest’anno La buona educazione per i tipi di Edizioni e/o. Il suo è un libro che in poche pagine condensa attimi di incredibile ilarità, sagace e spiritoso come riesce a essere, capace di farti sbellicare dalle risa e al tempo di gettarti nel pieno delle lacrime per la verità vera del vivere e il sentimento di accudimento che evoca, o meglio che vuole fortemente vuole, la necessità di recupero delle esistenze, dell’importanza dell’affetto, dell’intimità. In seconda di copertina si legge che la figlia racconta della storia della malattia della madre non come realmente avvenuta, ma come lei la ricorda. Trovo l’operazione intrigante e il romanzo delizioso per quel suo puntiglioso descrivere tutto ciò che una mamma, indubbiamente sfavillante, abbia potuto determinare sull’io della figlia: fai così e non far quello e proponiti in tal modo e mi raccomando laggiù ci si comporta in tal maniera e cotanta bulimia di parole è sbagliata e studia e impegnati molto e vivi la vita e cucina e non essere villana e salta e ridi e non ridere e piangi e non piangere in un certo modo. Anzi, non piangere affatto. Questi i motivi per cui si ride, anche per la forma brillante con cui la Bignardi sa usare le sue parole puntute senza mai scadere nel troppo. Ed è così che un giorno Lisa non riuscì a gestire più “il meglio” del quale, in suo favore, la madre era in costante ricerca, tanto da indurla a volersene allontanare. Ma noi tutti siamo rimasti in quel sacco pieno di vita che si chiama utero per ben nove mesi, abbiamo bevuto la stessa acqua, mangiato la stessa pasta al pomodoro, sbucciato le stesse mele e odorato gli stessi calicantus di chi ci ha generato: come si potrà mai pensare a una separazione? Ho semplicemente adorato le prime otto parole de La buona educazione: “…Mamma è una parola densa. Resta nell’aria…”. Poi la madre si ammala, talvolta senza neanche darsi la briga di avvisarci e di metterci a parte del suo male, piccolo o grande che sia, e certo noi ne siamo protetti, ma quando muore e non rimane da nessuna parte nulla di lei, se non il tutto, allora è impossibile non esserne lacerati.

Tuamore, una sola parola come tanto questi neologismi a me piacciono, descrive esatta esatta la lacerazione, lo squarcio, lo strappo del figlio che perde la madre, e che la accompagna in questo suo svanire lento e sempre troppo veloce insieme. E riesce tanto bene in questo suo cammino condiviso da portare noi lettori per mano insieme ai due personaggi, che sono persone in ossa e carne – parecchia carne, a giudicare dalla fame e dalla rotondità che è raccontata con vivace sornioneria – fino all’ultimo dei giorni, e pure dopo. La nave di Teseo pubblica il romanzo di Crocifisso Dentello il mese scorso. Non voglio svelare il significato vero di Tuamore, ma questa parola che non esiste, e che è crasi di molte parole e molti significati assieme, ti prende fin dalla signora che sale le scale in copertina, con quelle sue scarpe a tacco robusto, nere e dentro loro i collant color carne e ancor più sopra una gonna plissettata, grigia, da mamma, appunto. Tuamore è un romanzo dell’assenza che sta per arrivare; dei tabù esorcizzati tra chi viene prima e chi è caduto nel mondo da quella pancia; dell’incertezza nel dopo; della pienezza del cibo; della vivacità della Sicilia nel piatto; dei nomi omen; della tranquillità e della agitazione estrema che vi si racchiude; dello strazio di un corpo mangiato; delle mammelle che son latte e vita e divertimento e carne morsicata; della spugna con cui ti lavo mamma; del dispiacere; del ridere senza limiti; dei movimenti al centro dello stomaco; della disperazione; dello strazio; del tormento. Tuamore racconta della risalita lungo lo stivale, che è di moltissimi di noi italiani, della voglia di fare cose che la vita ti impedisce di fare, imponendotene altre che non avresti mai desiderato e che sei comunque riuscito a tradurre in meravigliose giornate dense come la melassa e in un’esistenza piena. Certo, Tuamore è anche un libro che impone di parlare del tumore, del cancro, della bestia, del brutto male, dell’orrore che ci sta dentro e intorno, delle afflizioni, dei dispiaceri, dell’angoscia. Purtuttavia leggetelo, perché è diverso, e alla fine non capirete neppure bene se le lacrime arrivino perché avete riso o perché avete pianto.

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