Nina on the embankment

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The books chosen by Andrea Salonia

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La scelta di cominciare a leggere un romanzo piuttosto che un altro è legata a motivazioni molto diverse. Ciascuno di noi, infatti, ha un rapporto differente con i libri nel loro complesso, ma certo da qualcosa deve pur arrivare il là perché si cada proprio su quello e non su quell’altro. Su di me l’oggetto in sé esercita sempre una malia particolare. Nina sull’argine di Veronica Galletta mi ha persuaso in primis per la copertina, per una certa qual fascinazione per la grafica, l’armonia dei colori e delle forme, e poi per quell’idea che l’argine porta seco. Sempre. Quindi, un plauso a minimum fax, anche perché oggi il loro Nina sull’argine è nella dozzina dei selezionati allo Strega 2022. Un secondo elogio personale alla loro capacità di realizzare oggetti davvero fascinosi pressoché ogni volta, al tatto, oltre che alla vista, stante una piacevole sensazione vellutata che le dita percepiscono accarezzandone i libri. Bravi.

In effetti, per raccontare di Nina sull’argine partirei dall’idea di argine.

Non so se sia davvero così, ma a me la parola evoca tre idee legate e distinte assieme. Argine come terrapieno, barriera, difesa, protezione da qualcosa: un riparo, perciò un argine rassicurante. Non sentite già un abbraccio nel pensare all’argine come riparo? Poi, argine come freno, impedimento, misura di contenimento, e di conseguenza argine come ostacolo, con una sfumatura coercitiva, di limitazione alla libertà e, in senso lato, fin claustrofobico. Infine, argine come margine, orlo, scarpata e ciglio, con quella inevitabile sensazione di vuoto al di sotto e al di là, e quel tanto di horror vacui che a tutto ciò si lega. Metterei insieme questi vari significati sottesi, piacendomi immaginare che l’argine sia una sorta di punto di scelta, una sfida, fin un’opportunità. Ecco, per il mio sentire Veronica Galletta nel suo Nina sull’argine ha raccolto tutto questo, facendolo peraltro con un linguaggio piano, diretto e concreto. Concretezza che si addice bene a Caterina, principale personaggio in una corale di personaggi che intervengono nella storia narrata. Caterina che è poi Nina, come tutti della famiglia la chiamano da sempre, da quando nacque in Sicilia per salire al Nord, lassù in Piemonte e in un Piemonte che non è Torino, e dove ancora c’è – o c’era – la nebbia, capace di nascondere e di confondere. Caterina è ingegnere, ed è là che si materializza tanta della concretezza, sua e del romanzo intero. È quel suo essere ingegnere che riempie le pagine di puntuale meticolosità nelle descrizioni tecniche, nella costruzione di un muro stondato – di quest’argine parliamo – col fine di proteggere un paese dall’ennesima devastante esondazione di un iracondo corso d’acqua. Di questo arginare si racconta, come pure del tentativo di arginare un certo qual numero di “vuoti” della Nina che è donna in un contesto prevalentemente maschile, e forse questa è la parte più scontata e già letta; compagna di un uomo che l’abbandona, laddove rimangono nella nebbia fitta le motivazioni reali di questa separazione, le sostanziali ragioni più che i tempi e i modi dell’allontanamento, e ancora l’argine diventa protezione per Nina; Nina giovane lavoratrice altamente qualificata ma pur sempre giovane e con un carico esperienziale poi non così robusto, ma con quell’argine da innalzare che diventa pure trampolino per il vuoto che sta dopo, e quindi argine come opportunità, addirittura opzione, scelta esistenziale; Nina ingegnere e lavoratrice.

Questo è l’aspetto del romanzo sul quale più ho riflettuto, che ha toccato corde laggiù nel mio profondo: il lavoro. Scrivendo il mio Domani, chiameranno domani ho raccontato la vicenda umana di un ingegnere, Augusto C., che era ingegnere e non faceva l’ingegnere. Questo è vero anche per Nina. Il mio Augusto C. ragionava da ingegnere, preciso, metodico, omogeno nello scandire la vita coi giorni uno dopo l’altro, giorni omogenei tra loro, densi ma pressoché identici nella loro pienezza, fino a quando arrivò un argine, un ciglio, e il successivo precipizio. Questo è vero anche per Nina. In entrambi i casi la rivoluzione è un motivo di “giustizia” che violentemente irrompe nelle vite delle persone rivoluzionandone le esistenze, mettendole sull’argine, imponendo scelte, decisioni, coercizioni, e l’essere ingegnere forse aiuta. Augusto C. e Nina, pur nelle loro totali assolute differenze, entrambi ingegneri, entrambi grandi lavoratori.

Ciò su cui voglio da ultimo far una breve riflessione è priori il lavoro. Nina sull’argine è anche un romanzo sul lavoro, sui lavoratori, sulle professionalità, sulle difficoltà, sulle giornate spese e vissute nel fare bene – prevalentemente – il proprio mestiere, con abnegazione, con coscienza. Fino a starne male. Fino a un tracimare del lavoro nella vita e di questa nel lavoro stesso. Quanta letteratura ha raccontato del lavoro e dei lavoratori e delle difficoltà e della bellezza. Su tutti mi piace ricordare La chiave a stella di Levi e Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni di Pennacchi. Che grandi. Il tema del lavoro nei romanzi è comunque argomento molto delicato, talvolta quasi periglioso. C’è sempre il rischio di toccare quel labile confine, una sorta di argine appunto, tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro. Amore e rispetto per la terra, per il territorio, per la gente, e tutto il resto. La Galletta scrive a un certo punto, magari riferito ad altro, ma io lo sento molto adatto qui “…con la stessa angoscia per la sconnessione fra le parti, nell’epifania che tutto insieme non si può tenere, e andare avanti significa sempre un po' tradire. Qualcuno, qualcosa, se stessi…”.

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Veronica Galletta, Nina on the embankment, Minimum Fax, Roma, 2021

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