…del dolore

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I libri scelti da Andrea Salonia

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Mi chiedo se oggi abbia senso parlare di dolore, uno qualunque che non sia quel dolore. Quello dell’oggi, appunto; quello che da settimane distrugge città e case nelle città; spazi grandi, comuni e pubblici; spazi privati, luoghi intimi, quotidianità fatte di tavoli e sedie e armadi, una tazzina di caffè e latte appoggiata sul tavolo della cucina. Quello che falcidia le vite, che uccide la gente.

Quello che non dobbiamo mai abituarci a osservare senza sentirlo vivo e lacerante, chè l’abitudine è orrore nel dolore. Ecco: ha senso parlare di un qualunque dolore individuale? Grande o piccolo esso sia, il dolore e l’individuo: ha senso? Di più, ne abbiamo il diritto? Io sono fortemente convinto che, anzi, si debba. Sia necessario. Sia salvifico, persino. Con rispetto, in punta di penna, lenti e pacati, ma sia un obbligo. Per ricordarci che l’essere umano cogitante e pregno di sentimenti continua a esistere; che loro, le persone in giallo e blu, perseverano nell’esistenza, come perfino quelle di altri colori; che noi esistiamo, nonostante tutto, nonostante.

È per questo che con non poca sfrontatezza ho scelto di raccontare le emozioni destate in me da due libri che il dolore lo evocano fin dalla prima di copertina. Espressamente, con la parola a nere lettere: dolore. Due libri lontanissimi tra loro, nel tempo e nel sentire. Il primo: Disordine e dolore precoce, di Thomas Mann, nella deliziosa edizione di Edizioni Henry Beyle, con la traduzione e una nota ragionata di Renata Colorni, efficace, elegante e sincera come ci ha sempre insegnato. Domanda tra le domande: perché scrivere ai giorni nostri di Thomas Mann e di questo suo racconto lungo pubblicato la prima volta in un lontanissimo 1926? Perché ci è capitato di leggerlo di recente, risposta semplice. Perché racconta di una famiglia borghese e abbondante in figli di età diverse che salgono e scendono per l’intera loro casa e vivono un differente rapporto con il padre, principalmente lui, ancora una volta, come spesso mi capita di scrivere.

Perché racconta in modo sottilmente critico del cadere delle certezze e della stabilità assodata e creduta imperitura, inamovibile, e per questo è drammaticamente attuale. Perché ben spiega, senza quasi farne cenno esplicito, di come il vissuto dei nostri primi anni potrà incidere indelebilmente su ciò che saremo negli anni a venire, graffi nella pietra. Perché narra di pianti a dirotto per una passione subitanea e fugace, un innamoramento bambinesco ma impossibile, e del sorriso che ne segue per una felice risoluzione, uno sguardo, una carezza vera o virtuale. Perché racconta di come la sfera affettiva all’interno della famiglia talvolta – o forse spesso, o magari addirittura sempre – inconsapevolmente crei dissapori, invidie, non detti, incertezze…dolore, e noi saremo quello che i mattoni da costruzione del vivere ci avranno portati a essere, uno sull’altro, legati dal calcestruzzo delle esperienze e dei giorni. Fino a qui, all’adesso in cui osserviamo gli accadimenti brutali, con lo stomaco attorcigliato e uno stiletto piantato nel centro dell’anima. E tutto questo, senza che abbia scritto una sola parola di quanto di sociologico sappia evocare Disordine e dolore precoce, silenziosamente e a viva voce insieme, come ben ci spiega la Colorni. La sua nota è semplicemente pregevole, ed Edizioni Henry Beyle ci regalano un oggetto di grande raffinatezza, piacevole anche solo al tatto.

Il secondo: Appunti sul dolore, di Chimamanda Ngozi Adichie, pubblicato nel 2021 per i tipi di Einaudi, con una incisiva traduzione di Susanna Basso. Anche in questo caso un racconto lungo, fatto di fotografie di momenti passati, attualizzati al presente. Non si racconta della guerra neppure qui, ma lo si fa; si racconta del disagio, della lontananza, della separazione obbligata; dei maledetti giorni vissuti in questi ultimi anni claustrofobici per un nemico invisibile e al tempo visibilissimo. Si racconta di quanto la morte del padre, improvvisa, inattesa, sconquassi e generi dolore, benché la vita ci avrebbe dovuto preparare attraverso quell’età meravigliosa che è la vecchiaia. È certo un dolore legato alla morte, ma quasi – e mi permetto pensarlo con grande rispetto – è maggiore il dolore per quello che la scrittrice nigeriana, che abbiamo imparato a conoscere, e forse ad amare, in altre pagine, descrive come la tirannia del dolore che condiziona il furto sistematico del ricordo.

Certo, del ricordo delle cose che contano; a me, però, piace pensare anche delle minuzie, della polvere che si deposita sul vivere delle giornate che poco o punto hanno di eclatante, di magico, e proprio per quello sono davvero meravigliose. Perché condivise, perché insieme. Perché insieme anche se distanti nello spazio uno dall’altro, ma certi che dall’altra parte del mondo lui o lei, la persona amata insomma, continui a esserci. E sia la nostra radice, piantata fino al centro della terra, e quindi robusta, capace di sorreggerci. A maggior ragione se questa sia una radice di un albero antico, del padre. È quindi un dolore differente, quello di cui ci racconta Chimamanda Ngozi Adichie nelle poche densissime pagine di Appunti sul dolore. A me è parso necessario ricondurre anche a questa dimensione più personale, intima e nascosta, la nostra percezione del dolore del quotidiano che ci circonda, ci assale perfino, con immagini e voci che talora fatichiamo a percepire nella loro ferocia. È questo dolore più riposto e famigliare che ci prende, strizzandoci come stracci da pavimento, lasciando che l’acqua sporca cada a terra, raccontandoci insieme del padre che all’istante non è più; le sue parole non sono più; gli occhi dietro gli occhiali; i giornali e i commenti freschi e sagaci non sono più; più. Scrive l’autrice un qualcosa che son certo sia vero per tutti anche se siamo fortemente convinti del contrario: “…Non sappiamo come reagiremo al dolore, prima del dolore…”.

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