The jump of the anchovy

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The books chosen by Andrea Salonia

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Camminare è perdersi e ritrovarsi, e tutte cose insieme.

Farlo con lentezza, un passo e poi un altro, chilometri dopo chilometri, un giorno e poi quello dopo, lasciando che gli occhi vaghino attorno, e con loro i pensieri. Lo sapevo da sempre, ma è la maturità degli anni che si son accumulati sugli anni che me ne han dato piena coscienza.

Così ho cominciato: affascinato dai nomi dei percorsi. Il primo è stato Il sentiero del viandante, sul lato orientale del mio adorato lago di Como, con l’acqua sempre al fianco sinistro, piccoli e grandi affacci che si aprono d’improvviso sull’incanto, grappoli di case che pare scendano a baciare il Lario, per tanto arrivano a lambirlo, e quella costante sensazione di essere prossimi a luoghi amati da sempre ma tutti da scoprire. Maggiana con la sua torre del Barbarossa, pietra antica che ha il sapore della saggezza. Mandello del Lario e la moto Guzzi, che quest’anno compie i suoi primi cento anni. Cent’anni di gloria e di passione. Lierna coi prati e le terrazze a lago. Il gioiello di Varenna, giusto in fronte ai due rami d’acqua scura che si separano con la punta di Bellagio, che è luogo di puro fascino e poesia e non solo luci e sbuffi d’acqua come quello del sogno americano, pur bello ma tanto artificiale. E poi Perledo, Bellano con l’orrido, profondo come solamente certi sentimenti nobili e meschini san essere, e il suo cimitero coi morti che si godono un raro spettacolo.

E poi Dervio, Dorio, Posallo, e infine Colico. Sono arrivato coll’animo a mille, felice, e i piedi a pezzi, per quell’incessante su e giù tra la riva e il cielo, dove i passi ci han portato. Ci han perché per me camminare è condivisione del sentire. Io ci vado con Roberto e Paolo, amici pieni di pensieri e di parole. Avete presente lo star bene? Ecco, quella comunione di cose, intenti, piedi che si muovono, terra che sfrigola sotto le scarpe, silenzi inframmezzati a suoni. Nulla più, e tutto.

Quell’anno terminammo il nostro cammino alla Antica osteria di Primaluna, in Valsassina, i luoghi del mio Odiodio, nomi che conosco, che mi riportano alla memoria cose e persone ed episodi. Lì un tavolaccio di legno sul terrazzo; accanto voci grosse di uomini a fine giornata col vino rosso davanti; e noi con loro, pane, formaggio, salame, pancetta, bresaola, facce stanche, una caraffa di buon rosso e tanta soddisfazione.

Quest’ultimo agosto con Paolo e Roberto siam partiti dal salame di Varzi, a Varzi appunto, l’ultima sera di luglio, lo zaino appoggiato a fianco, sulle spalle la fiacca di un intenso, intensissimo anno di lavoro, e la voglia di affrontare un nuovo cammino insieme. Affrontare è il giusto termine. La via del sale, novanta chilometri impervi, dalla Lombardia alla Liguria, verso il mare, attraverso il Piemonte e accanto all’Emilia Romagna. Un percorrere tra le genti e i posti. È curioso, ma lo abbiamo deciso una sera di fronte a una deliziosa cotoletta alla milanese, ancora una volta in una trattoria, a Milano, questa volta, e l’idea di quell’andare verso l’acqua ci ha magato, tutti e tre, e fin da subito, come di luoghi della memoria che ci avessero richiamato. Quasi un ritorno, appunto. È per questo che mi piace raccontare della mia Via del sale raccontando de Il salto dell’acciuga, che
Nico Orengo scrisse nel 1997. Copertina arancio carota. Son poco più di settanta pagine che godono di un sapore speciale, di sale e di pesce, di reti da pesca, di uomini che stan sul mare perché non potrebbero vivere altrimenti, di sassi sulla spiaggia, sentieri su su per le montagne, paesini di antica fondazione e di memorie ataviche, di mori e Saraceni, di botti gonfie di sale e acciughe, fin quasi a scoppiarne, di…

Io con la memoria ho un conto aperto. De Il salto dell’acciuga voglio iniziare con un pensiero che trovo semplice e di assoluta verità. Dice Orengo a un certo punto: “La memoria è come una goccia d’olio buttata nell’acqua. Può scomparire per un sitante ma poi se ne torna su, sta lí, galleggia come uno sguardo su ciò che è stato.” La memoria mi riporta al cammino: il primo giorno faticosissimo, circa venti chilometri in un continuo salire che non pareva aver fine, verso il monte Chiappo, dove non c’è nulla, tutto è chiuso, non una fonte d’acqua, non un ristoro, solo prati e alberi sotto, e una stazione sciistica un poco sghemba, serrata d’agosto e forse fin anche nel pieno dell’inverno. Una melancolia come di cose che han fatto il loro tempo, memoria di un’altra stagione, metereologica e del vivere. Memorie, appunto. Ma che gran contentezza l’essere giunti fin in cima, che compiacimento, che appagamento. L’averlo fatto insieme, nonostante il cuore che batteva tanto forte da sembrarti voler scappare dal petto. Sfinito per mancanza un qualunque giusto allenamento. Felice per i passi messi dietro, la prima tappa andata, l’esserci riusciti insieme, con parole differenti a girare in giro per la testa, mulinando tra altri ricordi. Bando alle incertezze della partenza, eravamo lassù, pronti per andare a dormire. C’era spazio solo per una doccia a lavar via polvere e mal di piedi, che tanto il mattino dopo ci avrebbe fatto pagare il conto di tanta audacia: venti chilometri in salita e senza alcuna preparazione. Folle, mi dicevo, sei un folle. Contento di rara contentezza. Quindi una panaché gelida, altre due chiacchiere con Roberto e Paolo, come fossimo bambini, e via, a letto.

Penso ancora a Orengo, che scriveva col cibo oltre che con il pigiar sui tasti, le lettere, gli accenti, le virgole e gli apostrofi, mettendo qua e là una storia di singoli individui, ficcata nella storia più grande delle genti, con un fare che sapeva essere insieme delicatezza e maestria. A un certo punto de Il salto dell’acciuga scrive: “Disegnava mappe, geografie, rilievi del terreno, ciuffi di mortadella, rami di castagni, rocce e ciottoli. Quand’era abbastanza svelto anche macchie di neve”. La nostra Via del sale si è conclusa a Camogli, davanti a un piatto di trofie al pesto alla Bocciofila. Uomini che chiacchierano. Fumano. Bevono una birra. Io che ascolto, macchie di neve che si sciolgono presto. E poi ritornano. Come il prossimo cammino. Chissà…

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Nicola Orengo, Il salto dell’acciuga, Einaudi, Torino, 1997

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