Il canto del profeta

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“È entrata in una parte di sé dove è assoluta, ha una spada tra i denti.

Perdita. Smarrimento. Paura. Coraggio. E: speranza.

State aprendo un libro che è una colata di lava, denso, incendiario, inesorabile. A partire dalla scrittura: nessun virgolettato, paragrafi compatti, cambi di scena sincopati. Tutto in discesa, trascinati giú dalla montagna, lo chiameremmo “crescendo” se non somigliasse a un precipizio. Si sta come in attesa di una svolta che non arriva, l’impatto sempre rimandato fino all’ultima riga che non é schianto ma sguardo verso l’alto, immenso cielo che si allontana e riempie gli occhi senza fare più paura.

Qualcuno ha parlato di distopia: accurato solo nella misura in cui il luogo – Dublino – è pretesto fittizio per mille altrove in cui altro che distopia, solo aberrante presente. “Il canto del profeta” è la descrizione spietata di una quotidianità, la nostra, occidentale, privilegiata, che si sgretola sotto i colpi serrati della guerra nascente; non è un romanzo storico eppure è la Storia così come l’abbiamo studiata per non vederla ripetersi e, contemporaneamente, nel suo ineludibile ripetersi. Alle nostre spalle e davanti ai nostri occhi. A dire che la lotta per la libertà non è mai data, mai definitiva, minacciata com’è dai venti forti dell’ignoranza e della limitatezza della memoria. Ogni profeta ripete sempre lo stesso canto.

Un uomo, marito, padre e sindacalista, esce di casa per partecipare a una manifestazione e non torna più. La moglie, Eilish, rimane con quattro figli e un padre anziano che oscilla tra una lettura lucidissima della realtà e l’offuscamento della demenza. La narrazione ci dice che non è l’unica, impigliata tra il restare e l’andare, ma noi stiamo con lei, la vediamo perdere il figlio maggiore tra i ribelli, il lavoro, il sonno – mai: la speranza. Statuaria nel crollo e nella devastazione. Ne esce il ritratto di una donna incredibile per la sua capacità di tenere tutto insieme, di essere piegata dal dolore, dalla perdita, dai dubbi, a pezzi ma mai arresa (estremizzazione, azzarderemmo, di quanto riesce spesso a fare una donna in molte vite qualsiasi).

A colpire è un certo immaginario dell’abisso, del vuoto davanti, che attraversa ogni pagina: cosa ci trattiene dalla disfatta, dal salto? A cosa si aggrappa la speranza? La risposta “ai figli” sembra non bastare a Lynch (piccolo moto di gratitudine), ciò che invece evoca Eilish in più di un passaggio è la straordinaria preziosità dell’ordinario. La vita che si annida negli angoli, il senso, straziato dalla violenza della guerra, sparpagliato nella bellezza di ogni minuscolo gesto quotidiano, ormai perduto. Banalità dire che apprezziamo le cose quando non ci sono più? Ma quando la vita si schianta contro la morte che peso assume la parola “banale”? Non è quello che desidereremmo di più? Sia data anche la banalità del bene, del piccolo, dello scontato, dell’ordinario. L’estremo lusinga la fantasia quando pace e libertà vengono, stoltamente, dati per scontati.

Le descrizioni della natura cittadina che fa il suo corso, come la diversa qualità della luce che scandisce le giornate, si addensano in brevi scorci di senso, perso o ritrovato, casuali eppure importanti: “…qualcosa della notte rimane ogni giorno” – la traccia del buio nella luce, incancellabile, come una macchia scura che rende più bianco il bianco intorno.

Leggere “Il canto del profeta” oggi è doloroso e angosciante, ci chiede tanto come lettori e come esseri umani consapevoli; allo stesso tempo, inaspettata generosità, ci fa dono di tutta la forza, il coraggio, la determinazione di Eilish. E: speranza.

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Paul Lynch, Il canto del profeta,66TH2ND, Roma, 2024

Edizione originale: Prophet Song, Oneworld Puublications, London, 2023

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