’14

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The books chosen by Andrea Salonia

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Perché leggere della Prima Grande Guerra nel 2021?

Perché è utile.

Perché è profondamente necessario.

Perché rischiamo di dimenticarcene, assorbiti dal nostro nuovo tempo e dalla buriana dell’accadere del passato prossimo, prossimissimo oserei dire, e del futuro di domani, perché già il dopodomani è troppo in là per pensarci con adeguata cognizione di causa.

Perché siamo stati quelli che la guerra l’anno combattuta, e la nostra bella bellissima Italia è anche il frutto prezioso della temerarietà e del coraggio di quegli uomini, di quei soldati, che hanno presidiato, sparato, bruciato, lanciato bombe, attraversato boschi e campi e fiumi, sono congelati al fronte, sono rimasti dentro le trincee, hanno lungamente atteso che qualcosa capitasse e che qualcuno decidesse di farsi uccidere, pur che i giorni si risolvessero in altri giorni e il tempo dell’inquietudine e della paura finalmente terminasse.

Forse non ci avrei pensato neppure se non avessi ricevuto alcune suggestioni in forma di libro; alcune molto conosciute (vedasi Erich Maria Remarque e il suo stare sul fronte occidentale senza che nulla di nuovo capitasse); altre a me ignote, in totale sincerità, come ’14 di Jean Echenoz.

Ciò che di ’14 più mi rimane sono la trasparente crudezza e il disarmante disincanto, e questi due atteggiamenti dell’animo di fronte alla crudeltà dell’attesa, del tempo che scorre, della ferocia umana, dello scempio dei corpi, del finire rapido, estemporaneo e certo precoce della gioventù, della morte, e ancor più dell’amore che sboccia e della nuova vita che viene riconquistata. E tutto con assoluta limpidezza e quasi uno stordente disincanto nei confronti degli accadimenti tragici che Echenoz racconta come ineluttabili. Ecco, questo insieme di emozioni rimane vivido dopo aver letto le centodieci facciate dell’elegante Adelphi color ruggine intitolato ’14.

Di sé Echenoz scrive: nato il tal giorno del tal anno a Valenciennes (cittadina dell’Alta Francia dove venne peraltro combattuta una battaglia nel corso dell’ultimo anno della stessa grande guerra), ha studiato chimica organica e il contrabbasso, ed è un discreto nuotatore. Forse è per questo suo stringatissimo raccontarsi che Echenoz risulta tanto spietatamente efficace e delicatamente pungente insieme. O forse è per il lento incedere degli eventi nelle parole del romanzo, che quasi paiono dar conto dei giorni della guerra, di quello stare ad aspettare che molto mi era piaciuto anche nei Giorni di guerra di Giovanni Comisso, dove il ritmo e l’incedere tuttavia avevano un sapore diverso – fors’anche per il momento in cui vennero raccontati, laggiù negli anni trenta del secolo scorso, dove si usavano termini e immagini altri e quasi più esperienziali e legati ai fatti che non ai percepiti degli accadimenti medesimi. E poi dell’aspettare ho io stesso tanto scritto nelle pagine dei miei romanzi, con i miei personaggi in claustrofobica attesa, a tal punto in sospensione da scomporsi e arrivare a perdere la loro corporeità e il loro credere. Probabilmente è anche per questi motivi che ’14 mi è molto piaciuto.

Potrei anche dire che v’è un vagheggiamento nelle parole di Echenoz, una contemplazione ammirata per il capitare delle cose, per gli oggetti, la vegetazione e gli animali, per l’animo umano violentato con una sorta di naturalezza imprescindibile – e in fondo pressoché “dovuta”, potremmo fin arrivare a pensare con orrore: giustificabile in tempo di brutture quali quelle della guerra e del morire sparati bruciati esplosi trafitti – che si frantuma insieme al ferirsi e al mutilarsi dei corpi. Anche queste sono sensazioni che forti ho provato nel leggere ’14, ma proprio come se fosse naturale che il tutto avvenisse, che il cieco, lo storpio, l’orfano, la vedova, l’amputato, l’esploso, il morto fossero parte di un procedere normale, logico, ovvio. Di più: legittimo. Questo comprendo essere il cuore del romanzo, o almeno quello che io ho inteso possa esserne il vero centro: la legittimazione della tragicità. Della guerra, in questo contesto specifico, di quella lunga, lentissima, sfinente, drammatica prima grande guerra, che si fa quotidiano e diventa una specie di metafora e al tempo perfino parafrasi de “il quotidiano”, del vivere, rapido e solamente percepito nel suo effettivo veloce rotolare, minuto dopo minuto e poi di ora in ora e di giorno in giorno. E sono questi attimi che si succedono ad altri attimi prima di loro che danno idea e spessore alla vita che viene tormentata, che termina per ricominciare con nuove esistenze, come quella di Charles, che è il nuovo nato alla fine del romanzo, di cui è perfino l’ultima parola.

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Jean Echenoz, ‘14, Einaudi, Milano, 2014

Original Edition: 14, Minuit, Paris, 2012

 

 

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