Le cose non sono le cose

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“VENERDÌ RE-VERSO

“Io sono quello che sono e questo è tutto quello che sono. Che lo dice sempre Braccio di Ferro”.

Bisogna dire che a questo Nori non sappiamo se garberebbe tanto una recensione. Ché il suo scrivere sa tanto di necessità di dare una forma comprensibile alle cose che succedono, poco di “voglio sapere cosa ne pensate”. Eppure a pubblicare un libro c’è un po’ questo rischio, che tutti vogliano dire la loro, andando persino a ripescare pagine scritte venti e passa anni fa.  Quelle pagine in cui ancora non abitavano Togliatti e la Battaglia, in cui non bastava un nome a riempire le sale, quelle pagine in cui, infine, gli inizi sanno di inizio e di cose a venire. 

Il romanzo dell’esordiente Nori è quanto di più onesto ci sia capitato di leggere negli ultimi anni: un’onestà che, a onor del vero, non si è poi più persa nemmeno nei lavori successivi, siano stati essi saggi, racconti impastati di autobiografia, ma anche prefazioni, letture, traduzioni. Si ha l’impressione, ad avere a che fare con lui, di recuperare quel briciolo di essenziale che compone il nostro andarcene per il mondo. Scrive, ad un certo punto: “I nichilisti non hanno maestri, non credono nella tradizione, riverificano tutto da zero”. A fare la conoscenza di Learco Ferrari, alter ego letterario minimamente camuffato, ci troviamo faccia a faccia con la riverifica della vita ordinaria, tutta fatta di idiosincrasie e dei gesti che le compongono, gesti onesti e, prima che giusti (a voler scomodare dei termini), dignitosi. E la dignità gliela restituiscono l’ironia e la voce scanzonata, che constata e non commenta un certo modo di portare avanti la vita, come a dire, le cose si commentano da sole se le lasciamo respirare (saggia Giovanna, di amiche così non ce ne sono poi tante). Per quanto si tenga attaccato a quella precisa, inscalfibile maniera di dire le cose, intravediamo tutta la cura, l’attenzione, la passione per le parole, per il loro significato, spoglio o spogliato di tutto quello che siamo soliti appiccicarci sopra, senza davvero aggiungere nulla, per un gusto tutto accademico di complicarle. Se Nori fa scuola lo fa in questo senso: nel senso della resa, dei palmi rivolti al cielo. Non è che si debba scrivere tutti come lui, ma bisogna restare fedeli alla propria voce, ridurla ai minimi termini per non essere noi i primi a tradirla. Così facendo le parole, anche per uno che ci mangia, le respira, le rispetta (soprattutto), recuperano il loro peso specifico e noi insieme a loro. Ci pesiamo nel confronto con le parole che abbiamo scelto, che sono quelle e non altre, così come stiamo in un posto e non in un altro, così come crediamo in una verità e non in un’altra. 

Se dopo aver letto “Le cose non sono le cose” prendiamo in mano “Bassotuba non c’è”, abbiamo l’impressione di continuare a camminare con lo stesso amico lungo la stessa strada, piano piano cambia il paesaggio attorno, ogni tanto ci si ferma a guardare i passi fatti, scappa un po’ di sconforto ma che ci vuoi fare, mani in tasca e si continua ad andare, un passo dopo l’altro, a vedere che succede poi. 

Più di tutto contro ogni devastante corrente, riconosciamo in questa voce una semplificazione che non vuole saperne di essere banale: nessuna banalità nell’affrontare le giornate con le voci sopra la testa che ti dicono “sei una merda, sei una merda!”, mentre cerchi di carpire sensi che sfuggono, che non ti sanno di troppo dritti, a dirla tutta. Che forse c’è un altro modo di attaccarsi a quel reale che non si fa spiegare né interpretare – che ci fa anche un po’ prendere dal panico: coi palmi alzati sapendo che ciascuno è quel che è. E, come cantava Guccini, a culo tutto il resto.

Recensione di Delis 

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Paolo Nori, Le cose non sono le cose, Fernandel, Ravenna, 1999

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