Eleanor Oliphant sta benissimo

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“…non ero mai riuscita a trovare nessuno adatto agli spazi che si erano creati dentro di me.”

“Eleanor Oliphant” sta benissimo è stato un clamoroso successo editoriale degli ultimi anni; l’abbiamo letto con scrupolo e curiosità per scoprirne le ragioni e pensiamo di averne trovate alcune. 

Eleanor Oliphant è una trentenne morigerata, con un “lavoro d’ufficio” anonimo cui adempie con puntualità e senza traccia d’entusiasmo alcuno, cinque giorni su sette, da nove anni. Il venerdì sera compera due bottiglie di Glen’s e cerca di sopravvivere al week-end. Il lunedì si ricomincia.

Eleanor Oliphant sta benissimo da sola: ogni intrusione del mondo esterno le risulta inopportuna e spiacevole, in definitiva evitabile. Eppure – è davvero possibile (o auspicabile) evitare la vita?

Ci sono due Eleanor.

C’è una Eleanor fuori luogo, sgradevole, insipida, per lo più indecifrabile. E’ quella che i colleghi sbeffeggiano quando non possono fare a meno di evitarla, senza margini di comprensione o empatia. 

Poi c’è la Eleanor raccontata da Eleanor: quella che dice sempre quello che pensa (anche quando francamente nessuno è interessato a sentirlo), genuinamente inconsapevole delle più elementari regole della socialità, barricata dietro una liturgia di abitudini apparentemente incomprensibili.

Al lettore è concesso il privilegio di conoscerle entrambe, di immedesimarsi nei sarcasmi pungenti (e un po’ banali) dei colleghi così come di sorridere dell’incontestabile linearità dei ragionamenti di Eleanor. Fossimo i colleghi, reagiremmo diversamente a certe risposte? Forse no. Quello che però abbiamo in mano è un pass VIP per il retroscena – e questo fa la differenza. 

Perché ci troviamo a pensare: quante solitudini invisibili abbiamo incrociato senza riconoscerle? Quante stranezze abbiamo liquidato come ridicole senza beneficio d’appello? Quanti silenzi non abbiamo saputo ascoltare? E non si tratta di farsi sempre e comunque carico dei malesseri altrui, delle altrui complicazioni; non si tratta nemmeno di vederle. Si tratta di sospendere il tempo del giudizio, di concedersi margini di valutazione più distesi, più inclusivi, meno spietati e definitivi. 

Il cammino che Eleanor intraprende per sopravvivere ai traumi della sua storia passa proprio attraverso l’incontro con individui capaci di una simile distensione: di vedute, di tempi, di possibilità concesse all’altro-da-sé. 

Raccontare una solitudine, l’abitudine al distacco come un’armatura al mondo, ma anche l’imprevedibilità delle occasioni – tutte umane – per liberarsene: questo fa Gail Honeyman dipingendo con nuda gentilezza Eleanor Oliphant. Se il successo di questo libro è stato così trasversale allora forse è perché parla a chi si riconosce in quella devastante anestesia dei sentimenti che può diventare la solitudine ma anche all’esercito dei presunti “normali”; parla al torturato e all’aguzzino, al custode del dolore e ai suoi inconsapevoli spettatori. 

Dice il saggio: sii gentile, perché ogni persona che incontri sta già combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Con semplicità e ironia Gail Honeyman racconta una di queste battaglie, come vincerla e come aiutare chi la sta combattendo. E allora, scansando i personalismi e lo snobismo di certa critica, lunga vita al successo di Eleanor Oliphant.

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Gail Honeyman, Eleanor Oliphant sta benissimo, Garzanti, Milano, 2018

Edizione Originale: Eleonor Oliphant is completely fine, HarperCollins, Milano, 2017

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