Atlante occidentale

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I libri scelti da Andrea Salonia

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Una sera, mesi e mesi orsono, un amico caro, cui voglio molto bene, filosofo, barbuto, collerico, libero come vorrei saper essere e controcorrente per passione e per intellettualità, con toni di entusiastico affetto mi ha parlato di questo romanzo, Atlante occidentale, del suo di amico, Daniele Del Giudice. Non lo conoscevo affatto, non si riesce che a conoscere poco, se non addirittura nulla, e il bianco della copertina cartonata mi ha subito incuriosito. Spoglio emdensissimo insieme, e per ridere direi con parole in nero e blu, come la mia squadra del cuore.

Questo accadeva ben prima che Del Giudice ci lasciasse e che le luci sul suo scrivere tornassero ad accendersi.

Atlante Occidentale non è un romanzo semplice. Anzi, è davvero difficile. Si può leggere con spensieratezza, che erroneamente potrebbe significare con superficialità, ma di mio non lo avrei compreso se così fosse stato. Perciò l’ho letto con attenzione e uno spirito curiosamente critico. Perché il testo lo merita, anzi lo richiede.

La storia: riassumiamola in poche parole: uno scienziato giovane e uno vecchio scrittore si incontrano fortuitamente, e già l’incontro è una stranissima casualità non casualità; entrambi saggi nei loro rispettivi campi, ma con una saggezza differente rispetto alle cose del vivere, alle esperienze, e non certo perché uno ne abbia di maggiori o di più storicizzate, sarebbe troppo banale, no, è proprio il percepire del secondo rispetto al primo che desta emozione e suscita curiosità; l’uno è in procinto di scoprire, l’altro racconta delle proprie scoperte.

Ma per me, che ho fatto della attesa il centro del mio scrivere, dei miei romanzi, il leggere della finitezza della attesa è una rivoluzione, un colpo basso, una ferita nel cuore del cuore, addirittura. E questo romanzo ne parla con grande naturalezza. Come pure parla della nostalgia “istantanea” per cose che accadono, che stanno accadendo, che sono appena accadute, o che perfino devono ancora accadere. E del desiderio di conoscere e di sapere di tutti quelli che nello stesso istante stiano facendo la stessa cosa o pensino lo stesso pensiero, e in tutto il mondo. O ancora il percepire delle cose, degli oggetti, come esseri a loro volta viventi, della loro vita – la vita di una lampadina, per esempio – come espressione del pensiero dietro alla materia, il prolungamento di chi l’oggetto l’avesse pensato e plasmato. E dell’immaginazione di chi racconta storie, e del quando l’immaginazione del pensiero diventa l’immaginazione del fuori, perché le storie si fanno perfettamente compiute, e quindi oggetti con vita loro propria. E della sottile e drastica differenza tra precisione, pignoleria e perfezione, che mi ha molto emozionato, perché uno si rivede nelle cose che legge scritte nero su bianco e quasi ne piange. E poi ancora di quelle persone che mantengono qualcosa di animale, e non filogeneticamente come noi che ci occupiamo anche di scienza saremmo proni a pensare; che dire, invece, nel loro modo di camminare, di sorridere, o semplicemente di piegare il capo, e tutto ciò per significare che quelle persone sono speciali e seguono percorsi tutti loro, paralleli a quelli degli altri. Ecco, anche questo mi ha commosso, perché è quanto di più speciale e inclusivo si possa dire per dire della diversità e della originalità e della unicità e dell’altro. Un suggerimento: anche Michela Murgia ne “L’incontro” aveva parlato dell’altro, ma in Atlante occidentale lo dovrete cercare, e sarà proprio bello perché vi apparirà come una caccia al tesoro tra le parole preziose.

Quindi, è per tutti questi motivi e per molti altri che leggerei il romanzo di Daniele Del Giudice, che mi sarebbe tanto piaciuto conoscere di persona, per quel certo tipo di sentire che subito percepisci comune e forse fin di più: in comunione. Pur nella diversità. Pur nella distanza generazionale. Pur nella differenza esperienziale. Pur…

Se dovessi raccontarvi in un’opera di altra natura questo romanzo? Utilizzerei l’opera magnifica di un altro amico mio carissimo, di rara sensibilità: “Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora”. Alberto Garutti è l’uomo e il grande artista di arte pubblica, ma per me a contare e ad avere importanza è fin più l’uomo e l’amico delle telefonate notturne, delle sensazioni di una parola, di un colore o di un cielo e delle foglie che lo attraversano.

L’opera di Alberto Garutti è una lastra inserita nella pavimentazione di piazze di varie città, Firenze tra le altre, e ciascun passante può fare propria e interpretare in modo assolutamente soggettivo e personale parole ed esperienze, collocandole nella propria esistenza e nel proprio tempo, lasciandosi cogliere dallo stupore che una cosa tanto semplice riesce a evocare in ciascuno in maniera differente e con una potenza addirittura violenta.

Così riassumerei Atlante occidentale, e trovo fin curioso questo accostamento che mi è capitato di fare, ma a ben ripensarci il romanzo mi ha portato a pensare a ciò, e a molto riflettere.

Spero vi piaccia, spero non lo abbandoniate per il ritmo che non è da noir, da giallo intricato e rocambolesco o da commedia. Mi auguro di cuore vi possiate lasciar prendere dal turbine dei pensieri e dalle luci dei fuochi di artificio davanti a Ginevra, che solo un grande scrittore avrebbe saputo raccontarci come fossero scienza e vita insieme.

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Daniele Del Giudice, Atlante occidentale, Einaudi, Milano, 2009

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