Nuoto libero

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I libri scelti da Andrea Salonia

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Perché se la malattia è dei famosi suona sempre diversa (almeno un poco, e certamente differente da quella di noi tutti, donne e uomini del quotidiano, qualsivoglia sia la religione, il ceto, lo status, il sesso insito nei cromosomi che ci han donato mamma e papà, lo spessore del portafogli, le tante o poche fotografie sulle mensole di casa, quelle coi visi sorridenti, ammiccanti, gioiosi, tristi, a un aperitivo, davanti a una torta con le candeline dei diciotto, alla fermata di un tram, in attesa, col nonno, con il fidanzato che si può dire, con il compagno di cui è meglio non dire o non si ha il coraggio di farlo)?

Perché è certamente così: la malattia di “loro” è più nobile, più grave, meno severa, ma pure molto più funesta, preoccupante, angosciosa, dolorosa, cupa, meritevole di lodevole contegno, più commovente, impossibile, giustificabile per una vita spesa in malo modo, eh sì un poco se l’è cercata, ingiustificabile, ostracizzante, problematica, un impedimento, un intoppo, il peggior ingorgo stradale, il.

Quella di noi è: una malattia. Lieve o severa. Acuta o cronica, o entrambi. Si guarisce. Non se ne guarisce. Si sopravvive. Si muore. Kaputt: rotto, rovinato, finito, annientato. Da medico mi viene una collera becera e difficile da contenere. Da uomo pure. Da scrittore provo ad arginare il disagio, pur se grande, e metto parole dopo parole. Lì, nere nere nere sul bianco bianco bianco del foglio.

Ecco perché oggi scrivo di Nuoto libero, titolo liberatorio, che consente boccate d’aria fin più ampie dell’originale The swimmers di Julie Otsuka. È edito da Bollati Boringhieri, con la traduzione di Silvia Pareschi, cui va il mio plauso più sincero (alcuni passaggi son resi con sensazioni tanto incalzanti da volerti aprire da solo la gola e metterci dell’ossigeno).

Ve lo dico subito: è bello, originale, innovativo. Sì, mi è piaciuto. In primo luogo proprio perché inaspettato nella costruzione del racconto, per l’estro creativo e l’inventiva del come i personaggi-persone siano stati introdotti, senza che il lettore se ne sia reso ben conto, e loro eccoli lì. Gli ambienti medesimi sono personaggi, e funzionali all’esistenza dei personaggi, senza che si possa immediatamente comprendere come le metonimie relative a luoghi e oggetti siano perifrasi descrittive dell’animo umano, del come siamo, del come pensiamo, di cosa non siamo capaci di dire, delle nostre paure, della prepotenza e della fragilità. Della malattia. Della crepa, sinuosa, nera, sfilacciata, insidiosa, e dei mille gradi di separazione intra e interindividuale che quella produce tra gli esseri. Tra i loro corpi, tra le loro menti, tra i loro affetti, tra le loro emozioni, tra tutto ciò che era e ciò che è adesso. Il prima di e il dopo di. Perché sì, scrive la Otsuka, “…si può imparare a convivere con tutto…”. Io ci esco pazzo per questo. Non riesco a trovare giustificazione all’evento estremo per antonomasia, figuriamoci a quelli meno severi, soprattutto quelli per cui non siamo più noi, e chi ci ha amato, chi ci ama, chi ci ha conosciuto, e ci conosce ora, non potrà che continuare a farlo ma diversamente, non sapendo bene chi ci sia al di là della crepa, cosa sia rimasto di quel prima della malattia.

Ed ecco che mi riaggancio all’incipit di queste mie parole: cosa sia rimasto delle persone che eravamo prima di una malattia tanto destruente e bastarda come quella che annichilisce l’individuo senziente e cogitante che eravamo; la malattia mentale, intesa come degenerativa, che mangia e fa a brandelli il cervello, quella meravigliosa e universale libreria che abbiamo in testa, racchiusa in un carapace di ossa, capace di tali iperboliche eccellenze tanto da tendere all’infinito.

Nuoto libero racconta di Alice che nuota e nuota e nuota nella sua corsia, nella sua piscina sotterranea, sempre la stessa corsia, sempre la stessa piscina, lontana dal clamore del mondo là sopra. Poi la crepa; nella piscina, a scuotere le certezze; nella testa, una frattura una faglia una separazione dei mondi e nel tempo. Demenza fronto-temporale (“FTD”), questa la diagnosi. La stessa di quel Bruce Willis che non si è potuto non amare dagli anni ottanta in avanti. Il nostro John McClane della porta accanto, l’eroe un poco folle, violento quel tanto che bastava, buono e senza troppi fronzoli.

Perché allora a lui la FTD? E perché ad Alice? Forse perché Alice si era sentita tanto felice, passeggiando con lui (l’amato) sul lungomare, da non ricordarsi neppure il proprio nome.

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Julie Otsuka, Nuoto libero, Bollati Boringhieri, Torino, 2022

Edizione originale: The Swimmers. Penguin, 2022

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