“VENERDÌ RE-VERSO”
“Perché per me le stagioni continuavano a succedersi, mentre per lui il tempo si era fermato per sempre a quel maggio?”
Nella nostra mente, mentre chiudiamo il libro con la gola chiusa, mortificati da una memoria che ora è anche nostra, l’eco della voce del professore di letteratura quando ci spiegava la grandezza della scrittura di Primo Levi: non ha aggiunto nulla, perché non c’era nulla da aggiungere. Il titolo stesso è un’eco di quell’altro così familiare, “Se questo è un uomo”: l’universalità di questo dolore e di queste domande senza punti interrogativi ci riportano brevemente al Nobel conseguito da Han Kang, un muto cenno di assenso ci scuote la testa. Gwangju, Corea del Sud, maggio 1980. Dieci giorni di insurrezione contro la legge marziale indetta da Chun Dao-hwan. Un massacro. Quando va bene, un paragrafetto nei nostri libri di storia.
Nel racconto il più grande ha una ventina d’anni.
Il più grande ha una ventina d’anni.
Il più grande ha una ventina d’anni.
Nelle ultime pagine la scrittrice ci dice della sua mano aggrappata al cuore, come a tenerlo insieme o a controllare che batta ancora. Leggiamo le parole di questo gesto d’amore e di ricordo e di dignità e pensiamo, con convinzione, che risieda qui il senso del nostro leggere. “Per favore, scriva il suo libro in modo tale che più nessuno possa oltraggiare ancora la memoria di mio fratello.”
Si tratta di un tentativo, riuscito, di non fare di quei ragazzi delle vittime né degli eroi, bensì, grazie al microscopio della letteratura, di puntare lo sguardo su un pezzetto della storia in cui la sventatezza e il coraggio di quei giovani, delle loro vite irrimediabilmente spezzate, ha portato a una libertà più grande e lontana da loro stessi. Eravamo pronti a morire. A volte, e questo è importante, questo è umano, non per la causa, per un’ideologia, ma per l’amico, la sorella. Han costruisce un monumento agli innocenti resistenti come se tutti i frammenti di quelle anime uccise, torturate o dimenticate si fossero ricomposti in una lapide luminosa e cristallina che non potrà essere crivellata di colpi né infranta né zittita.
È davvero complesso rendere giustizia a questa testimonianza senza risultare patetici o retorici.
Potremmo parlarvi come Han abbia assegnato voci e sguardi diversi a ogni capitolo; di come abbia usato quel “tu” per farci dono di una prospettiva prossima e amorevole su quelle vite sconvolte in un momento e per sempre; potremmo raccontarvi di quello spettacolo chiamato “I suicidi del 18 maggio”, recitato in silenzio per fare della censura cosa inerme, insufficiente; potremmo riportare quelle poche righe del saggio sul comportamento delle masse, creature informi che esasperano l’individuo indifferentemente nel bene o nel male.
Invece vi diremo di come i sopravvissuti, anche loro fermi a quel maggio, non piangano per la violenza o per il ricordo di essa ma di fronte alla riga nera della censura o alla domanda “qual è il tuo cibo preferito?”; di come il “grande” del gruppo abbia detto ai più piccoli uscite a braccia alzate, non vi faranno del male; di come nessuno di quei bambini armati abbia saputo sparare un singolo colpo.
Han Kang fa della sua scrittura piana un taglierino che squarcia le nostre palpebre chiuse, rende conto di una città, di un momento storico che si fanno simbolo vivente degli orrori che scegliamo di ignorare per vigliaccheria o sopravvivenza. Scava con coraggio al fondo della domanda più scomoda di tutte: cosa ci rende umani? Ed è la sofferenza con cui pone questo interrogativo che ci restituisce la forza di leggere fino alla fine, di attraversare le pagine scossi dall’orrore ma consapevoli che bisogna ricordare per resistere, per “meglio scalare ciò che ci riempie di terrore.”
(Dal 1 aprile trovate in libreria “Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti”, il discorso di Han Kang al Nobel, Adelphi).
Recensione di Delis
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Han Kang, Atti umani, Adelphi, Milano, 2017
Edizione originale: 소년이 온다
2014