I pesci non hanno gambe

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“VENERDÌ RE-VERSO

“Il tempo ci tratta in modo strano – il più delle volte inaspettato”.

Avete mai letto un libro che è una tormenta? Ché di libri-tormento ne abbiamo visti, ma libri-tormenta…è tutta un’altra storia. Proviamo a raccontarvela.

“Storia di una famiglia”, il sottotitolo. E come diceva il saggio, ogni famiglia felice eccetera eccetera. Questa famiglia ha le radici nell’acqua, se i pesci non hanno gambe è perché l’immensità del mare non consente la superficie, la si può davvero attraversare solo in immersione, esige profondità. Stefánsson ci parla di una landa alla massima distanza dal cielo, dimenticata dal Signore o chi per esso, gelata, inospitale, che ferisce senza scampo la vita che lì prende il suo avvio. Nati nella terra al confine della Terra, uomini e donne forgiano il loro carattere nel confronto perenne con l’urlo del mare e con la resistenza delle intemperie. Ed è subito tormenta, sono raffiche di vento che confondono il tempo, i punti cardinali, il giusto e lo sbagliato; nella tormenta ogni riferimento diventa effimero, il lettore é gravemente sperso, disorientato tra i piani temporali, i legami, i rimpianti e le paure. Le donne, le donne immense, stupefacenti che popolano queste pagine, donne che sono folli e sono canzoni, sono poesie, madri, figlie, amanti, vittime, matrigne, scomparse, sempre e comunque immense.

È difficile raccontare una tormenta. Con le immagini che ti schiaffeggiano, le parole che ululano, la bellezza delle evocazioni, come apparizioni sacre: “Per questo erano così belli, per questo le montagne si erano trasformate in un salmo, in un inno inestimabile.” La lingua di Stefánsson ricorda il turbinio della neve, torna sulla sua bellezza ricca di significato, riprende intere perifrasi, ce le rimette davanti agli occhi ancora e ancora e ancora finché non le comprendiamo, non con la mente ma con la pelle, finalmente vediamo quello che ci ha già detto non una ma dieci volte, all’undicesima ecco che il senso ultimo emerge in superficie: un brivido, che nulla ha a che fare con la ragione, sa più di intuizione, imperfetta, inappellabile intuizione. Ci si sposta dal trapassato dei nonni, al passato prossimo degli zii, al presente delle separazioni e dei ricongiungimenti. La voce narrante non ha nome ma tanto affetto, racconta come per restituire la dignità dell’accaduto e degli attori, l’insensatezza di ogni vita, la bellezza di ogni istante.

Di questo romanzo è difficile scrivere, ogni parola ne tradisce un’altra e così a tratteggiare una trama si perderebbe tutta la caleidoscopica perfezione delle parentesi, delle divagazioni che sono sfondo e sostanza di un affresco epico, la storia delle ferite di una famiglia e di una nazione. È la storia di un luogo dimenticato dal Signore, o chi per esso, un luogo in cui il mare rende uomini gli uomini e l’amore non salva nessuno; è la storia di un tempo che si ripiega su se stesso, come “l’ala di un angelo” o gli occhi di una ragazza che sono canzoni, che pensavamo di conoscere e che mai abbiamo conosciuto. Da tutta la tristezza, incommensurabile tristezza, di queste pagine stilla come una linfa, un senso di inafferrabile, di etereo, qualcosa che rimane dolceamaro sul palato e che, forse, ha a che fare con quella letteratura che “a volte sembra non avere confini e perciò continua a spingersi oltre, (…) in cerca di ciò che non conosciamo e a cui eppure aspiriamo.”: leggere Stefánsson ha a che
fare, forse, col prendersi cura delle parole, con l’importanza dello sguardo, con il beneficio del dubbio, con tutta la dignità del fallimento e con il valore tanto del ricordare quanto del lasciar andare.

In questa Islanda raccontata regna una malinconia che lenisce il nostro eterno spaesamento e di questo, possiamo dire, siamo grati.

 

Recensione di Delis 

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Jón Kalman Stefánsson, I pesci non hanno gambe, Iperborea, Milano, 2015

Edizione originale: Fiskarnir hafa enga fætur, Bjartur, Reykjavik, 2013

 

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